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Contratti riservati (art. 61 del nuovo Codice): la perplessa relazione illustrativa del Consiglio di Stato

Il contesto normativo dei contratti riservati

L’art. 61 del d.lgs. 36/2023, ponendosi in sostanziale continuità con quanto previsto dal previgente art. 112 del d.lgs. 50/2016, prevede testualmente quanto segue:

Le stazioni appaltanti e gli enti concedenti possono riservare il diritto di partecipazione alle procedure di appalto e quelle di concessione o possono riservarne l’esecuzione a operatori economici e a cooperative sociali e loro consorzi il cui scopo principale sia l’integrazione sociale e professionale delle persone con disabilità o svantaggiate, o possono riservarne l’esecuzione nel contesto di programmi di lavoro protetti quando almeno il 30 per cento dei lavoratori dei suddetti operatori economici sia composto da lavoratori con disabilità o da lavoratori svantaggiati”.

Nulla di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire (a parte le stravaganti previsioni di cui Allegato II.3, che traslano anche sugli appalti riservati talune norme previste disposizioni dall’art. 47 del d.l. n. 77/2021 applicabili agli appalti PNRR, non oggetto d’indagine nel presente scritto).

L’interpretazione del Consiglio di Stato

Di nuovo, invece, vi è l’interpretazione di detta norma, per come offerta dal Consiglio di Stato nell’ambito della relazione illustrativa al Codice, ove si legge:

L’articolo proposto, quindi, mantiene l’ampliamento dei soggetti a cui riservare le procedure di gara: da un lato, le imprese sociali, le cooperative e i loro consorzi, dall’altro qualsiasi altra impresa che impieghi nello svolgimento delle prestazioni oggetto dell’appalto almeno il 30% composto da lavoratori disabili o svantaggiati”.

L’interpretazione non è di poco momento, in quanto idonea in potenza a degradare la “riserva” di partecipazione che connota la rubricazione dell’art. 61 a mera condizione di esecuzione, surrettiziamente “ottemperabile” da qualsivoglia operatore economico (anche commerciale) pur in assenza di un primario scopo di integrazione sociale e professionale delle persone con disabilità o svantaggiate, con conseguente palese frustrazione della ratio sottesa alla norma.

Ma andiamo con ordine.

La ricostruzione dell’istituto e delle sue finalità

Come noto, è stata la direttiva 2004/18/CE del 31 marzo 2004, sulla scia delle comunicazioni interpretative della Commissione Europea (“Gli appalti pubblici nell’Unione Europea” dell’11 marzo 1998, seguita dalle due comunicazioni del 2001 sugli aspetti ambientali e sociali), a introdurre per la prima volta nell’involucro giuridico disciplinante la contrattualistica pubblica gli “appalti riservati”, ovvero quei contratti che perseguono il duplice obiettivo:

  1. da un lato, di tutelare particolari situazioni soggettive di svantaggio, promuovendo l’accesso al mercato del lavoro;
  2. da un altro, di riconoscere la possibilità di partecipare alle competizioni fuori da logiche di concorrenza pura.

La normativa dell’Unione europea, in sede di prima applicazione è stata trasfusa nel codice dei contratti pubblici del 2006 (d.lgs. n. 163), che ha dettato, all’art. 52, una disciplina specifica. Nel diritto interno esistevano già discipline di settore dettate per soddisfare l’esigenza di tutela verso i più deboli: in particolare, la L. 12.3.1999, n. 68 che disciplina il collocamento obbligatorio al lavoro delle persone disabili attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato e la L. 8.11.1991, n. 381 per la disciplina delle cooperative sociali.

L’art. 52 del codice dei contratti pubblici del 2006 ha dettato una disciplina estensiva in materia di pubblici appalti di lavori, servizi e forniture, prevedendo una vera e propria riserva, declinabile sotto due aspetti: riserva di partecipazione alle procedure di aggiudicazione in favore dei soli laboratori protetti e riserva di esecuzione nel contesto di programmi di lavoro protetti quando la maggioranza dei lavoratori interessati è composta da disabili che, in ragione della natura o della gravità della loro condizione psico-fisica, non possono svolgere un’attività professionale in condizioni normali.

Nel medesimo solco teleologico, con l’art. 112 del codice del 2016 (d.lgs. n. 50), ed invero con l’art. 61 del nuovo Codice di analogo contenuto, sono state confermate disposizioni speciali e derogatorie per appalti e concessioni riservati, sia nella fase della partecipazione, sia in quella di esecuzione, ad operatori economici ed a cooperative sociali e loro consorzi, il cui scopo principale sia l’integrazione sociale e professionale delle persone con disabilità o svantaggiate, ovvero, limitatamente alla fase di esecuzione, nel contesto di “programmi di lavoro protetti”.

La perplessità della tesi sostenuta nella relazione illustrativa

Veniamo dunque ai giorni nostri dopo questa sintetica chiosa, ed alle ragioni per le quali, a modesto parere di chi scrive, la relazione illustrativa del Consiglio di Stato s’ammanta di densa perplessità.

In primo luogo l’interpretazione proposta si scontra frontalmente con il dato letterale della norma, ove è testualmente previsto che gli operatori economici non possano essere “puramente” commerciali, ma debbano sotto un primo profilo avere come scopo principale l’integrazione sociale e professionale delle persone con disabilità o svantaggiate; sotto un secondo profilo il 30 per cento dei lavoratori dei suddetti operatori economici (e non del personale impiegato nell’appalto) debba essere composto da lavoratori con disabilità o da lavoratori svantaggiati.

In secondo luogo l’interpretazione proposta si scontra frontalmente contro la giurisprudenza, tanto unionale quanto domestica (e dello stesso Consiglio di Stato), la quale, seppur riferita all’art. 112 del vecchio Codice, è di perdurante attualità, in ragione della sostanziale identicità delle due disposizioni.

Giova a fini dimostrativi richiamare una nota decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Sez. V, 6 ottobre 2021, C-598/19), secondo la quale “l’articolo 20, paragrafo 1, della direttiva 2014/24 (recepito dall’art. 61 del nuovo Codice n.d.r.) conferisce agli Stati membri la facoltà di riservare le procedure di appalto pubblico a determinati enti e subordina tale facoltà al rispetto delle due condizioni cumulative ivi elencate, ossia, da una parte, che i partecipanti alla procedura siano laboratori protetti o operatori economici il cui scopo principale sia l’integrazione sociale e professionale delle persone disabili o svantaggiate e, dall’altra, che almeno il 30% del personale di tali laboratori e operatori economici sia costituito da tali persone (Cfr. in ambito domestico Cons. Stato, IV, 24 febbraio 2022, n. 1300; T.A.R. Lombardia, Brescia, 31 marzo 2022, n. 310).

Il Consiglio di Stato, in aperta contraddizione con la necessaria cumulatività, scinde le due condizioni e le rende alternative, interpretando peraltro estensivamente la seconda: nella sua lettura il 30% non va riferita all’operatore economico nel suo complesso, ma bensì al personale impiegato nello svolgimento delle prestazioni oggetto dell’appalto, invero, lo si ribadisce, in netto contrasto con la letteralità della norma che si riferisce agli operatori economici, e non già alle prestazioni.

Una siffatta tesi è già stata smentita dallo stesso Consiglio di Stato, che ha recentemente avuto modo di chiarire che ai fini del rispetto della quota del 30% dei soggetti svantaggiati prevista dalla normativa non può farsi “riferimento alla esecuzione del servizio, così trasformando inammissibilmente quella percentuale di riserva da requisito di partecipazione a requisito di esecuzione, come tale contrario allo spirito della legge ed al favor per le cooperative che utilizzano soggetti svantaggiati, che sarebbe definitivamente frustato” (Cons. Stato, V, 01 febbraio 2021, n. 812).

Una siffatta confutazione alla tesi contenuta nella relazione illustrativa trova ulteriore e definitivo avallo nella giurisprudenza della CGUE, ove si è precisato che “il legislatore dell’Unione ha inteso promuovere, attraverso l’occupazione e il lavoro, l’inserimento delle persone disabili o svantaggiate nella società, consentendo agli Stati membri di riservare il diritto di partecipare alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici o di determinati lotti ai laboratori protetti e agli operatori economici che, in considerazione della finalità sociale che perseguono, intervengono nel mercato con uno svantaggio competitivo”.

La “liberalizzazione” della riserva propugnata dal Consiglio di Stato frusterebbe la ratio della norma, ed eliderebbe quella compensazione in termini di vantaggio competitivo che quest’ultima ha inteso riservare alle (sole) imprese aventi lo specifico scopo dichiarato dalla norma.

La verosimili ragioni dell’equivoco

Chi pensa male sbaglia, ma spesso ci indovina, si suol dire.

Vediamo allora se è possibile rintracciare l’origine dell’equivoca relazione del Consiglio di Stato.

Dall’analisi dell’art. 61 del Codice è agevole avvedersi che esso preveda due distinte soluzioni operative per le stazioni appaltanti (scordandoci per un momento della necessaria cumulatività):

  1. la prima attiene alla possibilità di riservare il diritto di partecipazione alle procedure di appalto e quelle di concessione o di riservarne l’esecuzione a operatori economici e a cooperative sociali e loro consorzi il cui scopo principale sia l’integrazione sociale e professionale delle persone con disabilità o svantaggiate.
  2. la seconda attiene alla possibilità di riservare l’esecuzione nel contesto di programmi di lavoro protetti.

Quanto alla prima soluzione, essa non si concilia con la conclusione del Consiglio di Stato: la riserva di partecipazione non può avere ad oggetto “qualsiasi” operatore economico, ma solo quelli che hanno lo specifico scopo puntualmente identificato dalla norma.

Quanto alla seconda?

Il Coniglio di Stato pare aver ritenuto che per realizzare un “contesto di programmi di lavoro protetti” sia sufficiente impiegare nello specifico appalto il 30% di lavoratori svantaggiati.

Il Consiglio di Stato, quindi, pare aver seguito le indicazioni fornite tre lustri or sono dalla Determinazione AVCP n. 2 del 23/01/2008 la quale, avendo avuto modo di rilevare che gli istituti dei “laboratori protetti” (previsti dalla direttiva appalti ma non trasfusi nel Codice) e dei “programmi di lavoro protetti” non trovavano alcuna corrispondenza nella normativa nazionale all’epoca vigente, si era sforzata di definire le condizioni oggettive che dovevano ricorrere ai fini dell’identificazione di detti istituti.

Per quanto concerne la riserva a favore dei “programmi di lavoro protetto” (quanto ai laboratori protetti, per i quali pure rilevava il vincolo del 30% si rinvia alla determinazione), l’AVCP aveva ritenuto che “essa non si fonda sulla qualifica soggettiva dei partecipanti alla gara ma sul ricorso, da parte delle imprese partecipanti, nella fase esecutiva dell’appalto, all’impiego, in numero maggioritario, di lavoratori disabili che, in ragione della natura o della gravità del loro handicap, non possono esercitare un’attività professionale in condizioni normali. In tali casi, pertanto, la partecipazione alla gara deve intendersi riservata ai soggetti di cui all’art. 34 del D.lgs. n.163/2006, anche privi dei requisiti necessari ai fini del riconoscimento come laboratori protetti, che si avvalgono, ai fini dell’esecuzione dello specifico appalto, di piani che vedono coinvolti una maggioranza di lavoratori disabili, anche sulla base di accordi conclusi con soggetti operanti nel settore sociale”.

Tuttavia la tesi sostenuta in siffatta risalente interpretazione è da ritenersi superata ed incompatibile con l’attuale panorama normativo, sia alla luce della giurisprudenza già richiamata (i.e. le condizioni cumulative di cui s’è già detto), sia e soprattutto in ragione della sopravvenienza del Regolamento (UE) n. 651/2014 del 17 giugno 2014 il quale, sebbene per altri fini, all’art. 2, punto 100), reca la definizione di «posto di lavoro protetto», qualificandolo come un

posto di lavoro in un’impresa nella quale almeno il 30 % dei lavoratori sia costituito da lavoratori con disabilità”.

Anche detto regolamento, al paio con la formulazione del Codice, riferisce quindi la percentuale del 30% all’impresa, e non già quindi al numero di persone impiegate nell’appalto in fase esecutiva.

Considerazione conclusiva

Urge una relazione illustrativa per illustrare la relazione illustrativa che ha mal illustrato lo specifico punto oggetto di illustrazione.

Scritto da Elvis Cavalleri

Senior partner della società TrasP.A.re, specializzata in contratti pubblici; laureato in giurisprudenza, in scienze e gestione dei servizi (scienze della pubblica amministrazione) ed in scienze del servizio sociale; esperienza decennale in qualità di dipendente di pubbliche amministrazioni nella gestione di gare d'appalto; curatore scientifico del portale giurisprudenzappalti.it